CRITICA di Albino Galvano 1980
Come molti giovani artisti Pio Carlo Barola sente la pittura più come mezzo per esprimere delle idee,
di trasmettere un “messaggio”, che non come esercizio dell’occhio e della mano;
se nell’un caso e nell’altro si tratta di costituir un linguaggio, di formulare un discorso, si può ben dire
che Barola, come molti altri della sua generazione, punta più sui contenuti che sulla forma, subordina i
mezzi e lo stile a quanto intende comunicare.
Simboli e allegorie dominano i suoi quadri, un repertorio di emblemi-chiave si accampa sulle sue
tele con insistenza, quasi con prepotenza: fiori, farfalle, allusioni allo sgorgo della vita, talvolta
liberamente espansa, altra volta costretta e martirizzata dalle circostanze ostili di una società che
appare al pittore cinica e mortificatrice. Abbiamo ben conosciuti, negli ultimi dodici anni, questa
impazienza dei giovani, in tutti i suoi aspetti accettabili o discutibili, e non è certo il caso qui di
tentarne un’ennesima analisi sociologica o politica.
Ma per quanto più direttamente ci riguarda, cioè per la pittura, dobbiamo subito aggiungere che Barola,
per sua e nostra fortuna, non la sacrifica alla polemica, ma ne utilizza gli strumenti, acquisiti con una
solida, anche se non priva di traversie, educazione all’Accademia Albertina, per dar corpo e spessore
alle astrazioni intellettuali.
Basterebbe, per rendersene conto, osservare come il tessuto pittorico dei suoi quadri colle pennellate
fluide e corsive degli azzurri, delle ocre, delle interiezioni di nero, spesso accentuate in cerniere di
disegno impetuosamente espressionistico, appartenga alla buona tradizione di una pittura che non
teme di “raffigurare” e di raffigurar con mezzi di schietto gusto del colore e della materia, e rassicurarsi
sulla sua autentica vocazione, indipendentemente dalle, forse talvolta troppo insistite, preoccupazioni
di elaborare dei quadri ove il significato complessivo esiga una lettura non soltanto ottica ma concettuale.
Basterebbe osservare, fra i quadri qui esposti, con quanta gioia visiva Barola renda le strane forme e le
vivaci colorazioni dei suoi “Pesci” tropicali, o il drammatico gioco di contrasti cromatici e chiaroscurali di
un “Paesaggio” o, infine, la solida costruzione dei suoi “Nudi”, anche quando questi si propongono
piuttosto come sigle di un discorso ideologico anziché come saggi di ottica sensualità, per rendersi
conto di come Barola possa portare avanti il suo discorso con mezzi linguistici talvolta crudi e semplificatori,
ma figurativamente validi e intensi. In certe tele recenti poi il giovane pittore è ricorso a mezzi indiretti, come
l’impiego del colore a spruzzo, con risultati di notevole delicatezza, giocati da soli o per contrasto col resto
del quadro fortemente disegnato dal segno e dall’impasto.
L’inno alla vita e alla sua libera espansione ch’egli persegue con tanto accanimento e che rappresenta con
simboli elementari ma efficaci, con metafore scevre di ambiguità nella loro immediata evidenza visiva, ci
dice che in lui passione ideale e polemica contestatrice tendono sempre più a calarsi in una padronanza
piena di mezzi pittorici.
Non mancano del resto nel suo lavoro attente sperimentazioni di forme alternative di linguaggio, dalle
inserzioni di frammenti di specchio sulla tela, all’interesse recentemente dimostrato e di cui ci parlava con
entusiasmo, per l’incisione.
Un registro, insomma, assai vasto di lavoro in molteplici direzioni si apre di fronte
a lui e lo sollecita secondo differenti possibilità.
Questa vivacità d’interessi, lo stesso candore un poco scanzonato,
sono indice di una serietà anche morale con cui egli affronta il difficile compito – difficile sotto ogni aspetto
ideale e pratico - di “far il pittore”, sono la miglior garanzia per il suo avvenire.
Torino, marzo 1980
Albino Galvano
CRITICA di Aldo Spinardi 1978
Pio Carlo Barola, in virtù della sua prorompente giovinezza, ama da ogni fiore o frutto trarre un simbolo ed il suo
simbolismo è scoperto, senza bisogno del codice per svelarlo: il fiore è il simbolo della vita e diventa frutto, le erbe
che come spiritelli salgono dalla terra sono anch’esse simbolo di vita che freme, che ferve, le farfalle simboleggiano
la libertà, ma anche quanto di effimero ci sfiora e ci sfugge.
La spiga, il frutto originato dal fiore si accompagna al concetto di maternità, e se talvolta la rosa, il garofano, l’iris
trovano fertile terreno, collocazione naturale nel luogo dove nasce la vita, questa figurazione non si tinge di sensualità,
ma conserva una sua castità fiorita.
I cieli di Pio Carlo Barola sono come lingue di fuoco che investono tutto l’universo ed ora sono azzurre, celesti
ed ora anche amaranto, rosse, gialle: è chiaro che vogliono ripeterci che nulla vi è di statico, di morto, in questo mondo,
che tutto è movimento, e l’osservatore attento potrebbe affermare non soltanto che in quelle lingue sfuggenti c’è vita, ma
addirittura uno stormo di esseri non inseriti in involucri materiali.
Anche i paesaggi di Pio Carlo Barola sembrano costituiti da onde successive e così i laghi, le colline, i cieli che si
chiudono all’orizzonte.
Ma non è facile scoprire paesaggi senza il suo fiore preferito, la rosa, senza gli spiritelli verdi
che sembrano voler abbandonare la terra per salire verso il cielo, senza le sue fanciulle, che con le loro zone soleggiate,
luminose e le zone più scure, ombreggiate, richiamano il profilo delle colline: la terra è madre, su di essa si riflettono i raggi
del sole, su di essa cadono le ombre, ora a significare la pace di cui hanno bisogno gli uomini, ora a suggerire un desideri
di intimità.
E se, in “Omaggio a Gauguin” le lingue che invadono il cielo, anzi, sono la vita del cielo stesso, acquistano
bagliori di fuoco, come i pampini delle viti in questi giorni d’autunno, allora si scopre che l’amore alla terra del nostro artista,
la sua simbolica osmosi tra la donna e la collina, tra la collina e la donna, ha la sua fonte generosa naturalissima nel
Monferrato, dove Pio Carlo Barola è nato e al quale è strettamente legato.
Torino, 1978
Aldo Spinardi
CRITICA di Franco Solmi
FRANCO SOLMI: Direttore della Galleria Comunale d' Arte Moderna di Bologna dal 1975 al 1987.
Solmi, aveva curato alcune mostre di rilievo nazionale come La metafisica del quotidiano (1978) e Morandi ed il
suo tempo (1985).
Si era laureato in Estetica con Luciano Anceschi e era divenuto uno dei maggiori esperti italiani del pittore delle bottiglie.
Dopo essere stato segretario del Circolo di cultura a Bologna, dal 1959 entrò a far parte dell' assessorato alla Cultura
guidato da Renato Zangheri.
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Su di una cosa concordano tutti coloro che si sono criticamente occupati della pittura di Pio Carlo Barola, ed è il
fatto – evidente a livello di scelta linguistica ancor prima che nelle significazioni del narrare – che l’artista si riallaccia
ad una tradizione simbolistica che a Torino, città in cui ha compiuto gli studi diplomandosi all’Accademia Albertina,
ha probabilmente più convinti cultori che in ogni altra parte del nostro paese.
A differenza però dalle declinazioni fantastiche che il simbolismo prende in alcuni maestri, simbologie e metafore
qui tendono al concreto, nel senso che le allusioni, i rimandi, le possibili assonanze non accompagnano il riguardante
al di là, al di fuori o “oltre” quel che diciamo il reale, ma riconducono sensi e sguardi nel vivo dei processi esistenziali,
nei gorghi della più dispiegata quotidianità. Intendo dire che Pio Carlo Barola può anche essere considerato un artista
del “fantastico”, ma la sua pittura evita sempre le soglie buie dell’irrealtà e del surreale per una sorta di adesione alla
concretezza delle cose presenti sentite nella loro corposità, nel loro peso oggettivo.
Ciò vale che il pittore crei l’immagine di una città, di un campo d’erbe e di fiori, di una fanciulla o ritorni, attraverso
il filtro dell’ironia, a leggere i grandi della pittura, come nell’”Omaggio a Botticelli” composto nel 1978.
Ma da quella data molte cose mi sembrano cambiate nel linguaggio di questo costruttore di allegorie del quotidiano.
L’immagine s’è fatta più stringata ed essenziale, al linguaggio simbolico s’accompagna con vitalistica veemenza
la sensualità più scoperta.
Si veda ad esempio il dipinto del 1986 ove alla prepotente e carnale figura di giovane donna nuda in primo piano
fa riscontro, sul fondo, il fantasma della vecchiaia. Il dipinto si intitola Vento del tempo
ed è in qualche modo anomalo rispetto a quelli degli ultimi anni soltanto perché la giustapposizione degli opposti
momenti della parafrasi simbolistica finisce non per fondere, ma per separare le due immagini, quasi che l’artista
abbia dipinto due opere su una sola superficie.
Non soltanto v’è uno sfalsamento di piani rispetto allo spettatore, ma la figura sul fondo, di memoria classica, è
gettata nel passato a cui appartiene e non entra in dialettica – come
dovrebbe se la significazione simbolica funzionasse – con la realtà rappresentata della fanciulla in vertigine. Barola
si è evidentemente reo conto, e altri suoi dipinti ultimi lo dimostrano, dello scarto concettuale e l’ ha sottolineato
invece di evitarlo, costruendo con diversa tecnica e diverso linguaggio le due figure, l’una in modo intensamente
espressionistico l’altra secondo la regola classica del “disegno”, cosicché ad una parte pittorica risponde nel quadro
una dissonanza grafica, di lontana memoria.
Tanta è la forza dello sguardo, dell’indagine che si colora di sensi vitali
e di quella “gioia visiva” di cui ha così acutamente scritto Albino Galvano presentando il pittore, che l’immagine giunge
a volte a sfiorare l’improntitudine della “Pop Art” e l’allucinazione descrittiva, come avviene in Blue Jeans del 1987 e
come era accaduto, forse anche per ragioni di riferimento simbolico in Luglio del 1980.
Laddove il gioco delle allusioni
si riaffaccia, come in Frutti del 1986 e Un tuffo nel blu del 1987, non è tanto la valenza metaforica che colpisce quanto
quell’aura d’incipiente ambiguità che diventa segreto e mistero in opere apparentemente più scoperte.
L’Omaggio a
Bistolfi del 1984 coglie infatti il gioco sontuoso delle linee plastiche, proprio del maestro scultore, alla luce di una
sensualità perfino aggressiva.
Ma soprattutto in Bacino del 1985, tutta la composizione si regge sui trapassi di ombra
e di luce e sugli insinuanti giochi allusivi che così si creano. Io non so quali potranno essere gli sviluppi immediati della
ricerca di Barola, ma ritengo che egli potrebbe liberarsi degli eccessi di virtuosismo e delle strettoie dei doppi sensi
per puntare più decisamente sulla semplificazione dell’immagine e sulla poesia dei toni e del colore che egli dimostra
di saper raggiungere i modi convincenti quando più si abbandona all’interiore senso lirico.
Campo di papaveri del 1987
è opera molto significativa proprio perché sta ad indicare un atteggiamento forse meno ansioso ed apprensivo del pittore
rispetto ad una realtà che non ha bisogno di essere trasfigurata, ma che è essa stessa trasfigurazione quando se ne colga,
come fa Pio Carlo Barola nei momenti di più felice intuizione, la verità come mistero e poesia.
Giugno 1988.
Franco Solmi
CRITICA di Remo Wolf 1996
Remo Wolf (Trento, 29 febbraio 1912 – Trento, 27 gennaio 2009) è stato un incisore italiano.
Artista trentino ed incisore di fama internazionale, nato a Trento nel 1912, si dedica a partire all'incirca dagli anni '30
all'arte incisoria, tecnica che predilige e che lo accompagnerà durante tutto l'arco della sua lunga ed intensa vita artistica.
Si interessa in particolare alla tecnica xilografica producendo un corpus di opere che conta migliaia di soggetti, sacri e
profani, ironici, spesso dedicati alla montagna.
È stato presente alle Biennali veneziane del 1942, 1950, 1954 e 1956 e
alle Biennali dell'Incisione di Reggio Emilia, di Cittadella,Oderzo e di Carpi, al Premio Suzzara, al Premio Biella e alle
rassegne della Calcografia Nazionale di Roma svoltesi in Italia e all'estero.
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Recentemente ho avuto modo di vedere le incisioni linoleografiche di Pio Carlo Barola, lavori questi che vanno dal lontano
1978 al 1991.
Sono incisioni che dal puro bianco e nero passano ad arrivare al colore con più matrici, a soggetto libero o a temi legati fra
loro: Incisioni che seguono il filo delle esperienze pittoriche, ricche di una certa conoscenza simbolista, giocate su elementi
di un semplice gioco d’incisione (cioè di semplice “tagliata”) con rapporti di bianco e nero che si muovono quasi come
elementi astratti a sé stanti, che conservano però segnali tradizionalmente figurativi, per una più rapida comprensione dei
soggetti presi a prestito.
Soluzioni quindi assai variate, correnti sul filo del rasoio, legate alla continua esperienza pittorica sempre presente
come “sostanza prima” dell’artista e nello stesso tempo, come ricerca tecnica in una astrazione del linguaggio dei rapporti
fra le singole superfici.
L’operare pittorico dell’artista Barola è stato ben esaminato da tre importanti studiosi quali Galvano (1980), Guasco (1986)
e Solmi (1988), ben esaminato e illustrato il gioco delle linee plastiche e luminose, il richiamo ad un certo realismo
documentato con eleganza, quasi travolto dalle linee o superfici sinuose che circondano le immagini, quasi tormento di
pensiero o di vita turbinosa in cui è costretto a vivere l’essere umano del presente.
Ma l’ansia della ricerca si muove continuamente anche nella linoleografia. Osserviamo “Metamorfosi” 1978, “Casale” 1984,
“Farfalle” 1985, “Ami” 1988, “Strade del Monferrato” 1985 a tre matrici, “Natura morta” 1989 a cinque matrici, “Composizione
con zucca” ottenuta a matrice persa.
Si noti la ricerca del valore del bianco e del nero piatto che varia a secondo delle dimensioni rapportate fra loro o l’uso di
un secondo colore di fondo come in “Venezia, Isola di San Giorgio”, o di più colori..
E’ questa ricerca che evidenzia il valore dell’incisione, ricerca che potrebbe annoverare nuovi giochi e nuove possibilità,
specie se all’esperienze finora vissute se ne affiancasse una nuova e ancor più stimolante: quella del legno.
Il legno preso
nel suo senso di “filo” dove la materia fibrosa può condizionare, ma anche smuovere la fantasia dell’incisore a nuove soluzioni,
a nuovi rapporti di bianconero, fuori da un gioco semplicemente chiaroscurale o lineare.
Trento, maggio 1996
Remo Wolf
CRITICA di Angelo Dragone
Fra tradizione e innovazione
Tutta calata fra tradizione e innovazione, l’attività del pittore e incisore Pio Carlo Barola – nato il 7 marzo 1956 a San
Giovanni Rotondo (in una famiglia piemontese devota al Beato Frate di Pietralcina), ma da sempre, poi, residente a
Casale Monferrato – a trent’anni giusti dal suo esordio documentato da alcuni coloratissimi dipinti a vernici, si offre
oggi in un’ampia retrospettiva, prestandosi ad una sorta di utile bilancio; quasi per una verifica della tenuta del linguaggio
tendente essenzialmente a certe sue forme simbolistiche e a qualche sognata allegoria.
I suoi paesaggi fantasticati, come le erbe e le quinte alberate, gli scorci delle strade con le loro chiese e i palazzi antichi
al pari dei ben costruiti nudi di donna o delle nature morte, rivelano infatti, in buona sostanza, le più suggestive e coerenti
loro forme cifrate.
Anche per questo non è facile definire la sua pittura che è quella d’un mondo raffigurativo vagamente
aggiornato nell’esibizione di immagini, ed insieme di forme linguistiche che aspirano a tradursi in stile, passando dalle
vivaci colorazioni di certi “Pesci” tropicali al drammatico gioco chiaroscurale che sottolinea in senso ottico la sensualità
dei corpi dalle semplificate, flessuose, anatomie femminili.
Aveva maturato la propria formazione didattica a Torino frequentandovi il II Liceo Artistico “Renato Cottini” (in cui nel ’75
conseguì la Maturità) e il corso di Pittura tenuto da Piero Martina nell’Accademia Albertina di Belle Arti, dove si diplomò
nell’80 con una tesi di Storia dell’Arte su “La pittura di Albino Galvano”. Ancora nel ’97, presso l’Istituto Albe Steiner,
conseguì un diploma in “Arte della fotografia e Grafica Pubblicitaria” mentre, dopo l’Abilitazione, fin dal 1982, potè darsi
all’insegnamento di “Discipline Pittoriche” e di “Educazione Artistica” in vari istituti soprattutto del Casalese.
Di fatto
Barola s’era soprattutto immesso in quel circuito che gli avrebbe procurato stima e amicizia da parte di giovani colleghi
e numerosi suoi Maestri, da Francesco Tabusso e da Mauro Chessa a Francesco Casorati, da Romano Campagnoli a
Marco Gastini, ma curioso anche dei “giochi di grafico”, a loro modo astratti, di Fernando Bibollet (che sarebbe stato
anche singolare maestro di “dizione” e non solo dispensatore di “segreti alchemici, simboli, misure, temi”) che l’avrebbe
ricordato “nel suo silenzio, sognatore e lavoratore implacabile”.
Da parte sua , fin dal 1980, per la prima mostra personale
di Barola, Albino Galvano aveva tenuto a rendergli testimonianza scrivendo: “L’inno alla vita e alla libera espansione ch’egli
persegue con tanto accanimento e che rappresenta con simboli elementari, ma efficaci, con metafore scevre di ambiguità
nella loro immediata evidenza visiva ci dice che in lui passione ideale e polemica contestatrice tendono sempre più a calarsi
in una padronanza piena di mezzi pittorici”.
Sul versante creativo, dunque, Pio Carlo, forte d’una evidente inclinazione
naturale era partito dalle forti pitture a vernice dell’esordio – con Lucerna e arancia, Chiesa dopo la pioggia, Fante – dipinti
con la “gioia tenace” (riconosciutagli da Bibollet), ma con le prime Veneri, con Oggetti sul tavolo e le Teste di cavallo fin
dal ‘72 quei larghi tasselli colorati, soprattutto in bruno e azzurro, costituiscono un’allusione diretta ai problemi di “luce e
ombra” destinati a fornirgli una sorta di figurale ordito pittorico sul quale intervenire.
La donna come una fronda verde o un
ramo secco, un occhio che piange o il Cristo che si stacca dalla croce per cogliere un fiore (1973) al pari della T
esta-ingranaggio d’un “uomo-macchina” (Autolesionismo) danno l’immediato senso allegorico della sua produzione,
come la farfalla-simbolo-di-libertà, o l’anfora da intendersi come l’immagine della maternità.
Tutto questo ha poi una
precisa portata nella pittura di Barola, offrendo d’altra parte una sorta di equivalente anche nei linoleum incisi con un segno
forte, destinato alla stampa in bianco e nero, tra pieni e vuoti, la carta e le figurazioni inchiostrate, che nell’88 gli valsero
l’invito alla rassegna di Carpi dedicata all’incisione xilografica.
Ma, sia pur raramente, concedendosi anche in questo
campo l’uso di una gamma di colori caldi cui nel ’90, Enzo Di Martino non aveva mancato di riconoscere “una vera e
propria funzione alchemica” trasformando l’immagine “in qualcosa di
-altro- e conferendole anzi un valore persino simbolico”.
Di qui i numerosi “fiori/donna” e le variazioni sul tema dello
specchio, ma anche quel tempestivo suo recepire i problemi della vita quotidiana (come nel Cristo dei drogati, del 1980,
ultimo suo anno d’Accademia), mentre fondendo espressione e decorazione in Monferrato la figura della donna con
grappolo d’uva tenuto in mano, lasciando sul fondo come un’antica mappa geografica quasi ridisegnata dai capelli su
un piano colloquiale che spiega anche l’interesse suscitato dalla pittura di Barola con il corsivo suo disegno e l’eccitata
cromia che dà spessore e luce alle figure dalle spalle scoperte o dall’ampio seno nudo che s’erge, come un fiore sul calice,
stretto in vita dalla cintura dei Blue jeans (1987).
Dell’anno prima è il San Girolamo in cui il pittore aveva rivisitato il capolavoro del Caravaggio di modo che nell’evocare la
figura del Santo, cui s’era dovuta la traduzione in latino dell’Antico Testamento. L’aveva ritratto accanto al Crocefisso, ad
un teschio e al candeliere intesi anche come simboli della sua meditazione e sacra ispirazione cui Barola non ha esitato
ad aggiungere, con estrema naturalezza (ed escludendo quindi ogni irrisione), quali simboli del nostro tempo, non più la
clessidra, ma l’orologio con la tazzina di caffè e il pacchetto di sigarette quasi per far sentire, in una sorta di scherzosa
riflessione sulla Storia, l’attualità di un testo e di quel Santo che diventa, così, nostro contemporaneo.
E Renzo Guasco,
da parte sua, era quindi portato a mettere in evidenza come, anche nel conversare, il pittore lasciasse affiorare lo spirito
vivo di un filosofo e, forse, d’un mistico. In questa stessa prospettiva va poi colta anche la coerenza dei suoi approfondimenti
e delle nuove metafore che s’accompagnano ai contenuti visivi della sua ricerca espressiva, nello studiato raccostamento
della sua città come alla Riviera Ligure, da Rapallo ad Alassio, dove riaffronta ogni volta la Riflessione sul mare iniziata
nell’87 con l’invasione dei nuovi suoi azzurri.
Si spiega anche meglio, quindi, il filo delle sue esperienze grafiche, con un
passaggio dal rigore del bianco e nero dei primi linoleum “ che si muovono quasi come elementi astratti a sé stanti, che
conservano però – e lo si legge in un’osservazione di Remo Wolf, che ne scrisse nel 1996 – il valore di segnali
tradizionalmente figurativi, per una più rapida comprensione dei soggetti presi a prestito”.
Allo stesso modo la pittura
rimane come “sostanza prima” e l’incisione, allora, come “derivata”, il suo realismo “documentato con eleganza”, ma
travolto dal sinuoso fluire di una linea luminosa in cui si specchiano insieme quasi il tormento d’un pensiero partecipe
della coscienza e il continuo incalzare della vita umana come esperienza del quotidiano, nel flusso d’uno scorrere, lento
ma continuo, delle stagioni e dei colori del paesaggio – la terra e il mare, il gelso e la ninfea – ma che può leggersi anche
nel segreto di un volto umano.
Angelo Dragone
CRITICA di Renzo Guasco
Ho passato recentemente un pomeriggio con Pio Carlo Barola. Mi ha portato la fotocopia di un mio articolo del 1973
in cui parlavo di alcuni suoi lavori esposti in una mostra collettiva di lavoratori e studenti. Barola aveva allora diciassette anni.
Da allora ci siamo incontrati parecchie volte, quasi sempre in occasione di inaugurazioni di mostre, ma io non avevo più
seguito con attenzione il suo lavoro.
Quello che mi ha colpito parlando con lui e vedendo le fotografie delle opere dipinte in questi tredici anni e i dipinti e le
incisioni scelti per questa mostra è la coerenza del suo lavoro. Le opere qui esposte sono degli ultimi tre anni, 1983 – ’86,
ma non contraddicono le ricerche precedenti; ne sono in certo modo la ricapitolazione. Se non temessi di violare il suo
riserbo parlerei soprattutto delle sue qualità umane. I soggetti dei quadri, i titoli, le rivelano a chi sa guardare con attenzione.
Mi dice Barola che ha sempre voluto evitare ogni definizione della sua pittura. Chi ha scritto su di lui ha parlato di
simbolismo, io direi piuttosto che si tratta di allegorie. Mi limito a citare qualcuna delle opere esposte, quelle che mi
sembrano più significative. Lacrime amare del 1983. Cinque volti di vecchie, stravolti dal dolore, solcati da rughe profonde.
I colori preferiti sono ancora quelli dei suoi primi quadri, i bruni e gli azzurri. I segni ondeggianti sono gli stessi che ritroviamo
nelle incisioni su linoleum. Più che dipingere con il pennello sembra intagliare con il bulino.
Del 1984 sono La corsa della vita e Paesi troppo lontani. L’uomo che corre ha la maglia rossa, unica eccezione nella sua
scelta cromatica. Un uomo anziano, con il cappello, appoggiato al bastone, osserva con distacco il giovane che corre. In
Paesi troppo lontani tre ragazzini negri, animali al pascolo, un albero senza foglie, un cielo tumultuoso.
I vecchi farfalloni del 1985 è quasi il rovescio di Lacrime amare.
Là volti di vecchie disfatte dalle fatiche e dai dolori, qui quattro uomini dai volti soddisfatti, quasi sorridenti. Tutti hanno
posata sulla spalla una farfalla rossa. La farfalla la ritroviamo in molti dipinti e incisioni di Barola, quasi come una sigla di
riconoscimento.
Del 1986 è San Girolamo, dal Caravaggio. Sul tavolo del Santo, che tradusse in latino l’Antico Testamento dai testi originali,
accanto al Crocifisso, al teschio e al candeliere, stanno due simboli della nostra vita di oggi, la tazza del caffè e il pacchetto
delle sigarette.
Girolamo al polso ha l’orologio. Non si tratta di un pastiche, di un divertissement, ma, sotto l’aspetto
scherzoso, di una riflessione sulla storia. San Girolamo è un nostro contemporaneo. Ho accennato alle qualità umane
di Barola. Sotto l’apparente semplicità della sua conversazione avverti il filosofo e, forse, il mistico.
Albino Galvano nel 1980, presentando una mostra di Barola, scriveva che egli “punta più sui contenuti che sulla forma,
subordina i mezzi e lo stile a quanto intende comunicare. Simboli e allegorie dominano i suoi quadri…” “…l’inno alla vita
e alla sua libera espansione ch’egli persegue con tanto accanimento e che rappresenta con simboli elementari ma efficaci,
con metafore scevre di ambiguità nella loro immediata evidenza visiva, ci dice che in lui passione ideale e polemica
contestatrice tendono sempre più a calarsi in una padronanza piena di mezzi pittorici”.
Non si potrebbe dire meglio. I lavori qui esposti, dipinti in questi ultimi tre anni, dimostrano come la coerenza del linguaggio,
dalle prime prove ad oggi, non significhi stasi e ripetizione, ma approfondimento, sia tecnico che concettuale. Ammiro la
coerenza di Barola in anni in cui nessun pittore, giovane o anziano, sembra più sicuro delle sue scelte ed è pronto a mutare
linguaggio ad ogni soffio delle mode.
La sua è una scelta morale, non solo artistica; è una scelta di vita.
Torino, novembre 1986
Renzo Guasco
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